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Tu vis, je bois lazur...

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TU VIS, JE BOIS L’AZUR...

 

Tu vis, je bois l’azur qu’épanche ton visage,

Ton rire me nourrit comme d’un blé plus fin,

Je ne sais pas le jour, où, moins sûr et moins sage,

Tu me feras mourir de faim.

 

Solitaire, nomade et toujours étonnée,

Je n’ai pas d’avenir et je n’ai pas de toit,

J’ai peur de la maison, de l’heure et de l’année

Où je devrai souffrir de toi.

 

Même quand je te vois dans l’air qui m’environne,

Quand tu sembles meilleur que mon cœur ne rêva,

Quelque chose de toi sans cesse m’abandonne,

Car rien qu’en vivant tu t’en vas.

 

Tu t’en vas, et je suis comme ces chiens farouches

Qui, le front sur le sable où luit un soleil blanc,

Cherchent à retenir dans leur errante bouche

L’ombre d’un papillon volant.

 

Tu t’en vas, cher navire, et la mer qui te berce

Te vante de lointains et plus brûlants transports.

Pourtant, la cargaison du monde se déverse

Dans mon vaste et tranquille port.

 

Ne bouge plus, ton souffle impatient, tes gestes

Ressemblent à la source écartant les roseaux.

Tout est aride et nu hors de mon âme, reste

Dans l’ouragan de mon repos!

 

Quel voyage vaudrait ce que mes yeux t’apprennent,

Quand mes regards joyeux font jaillir dans les tiens

Les soirs de Galata, les forêts des Ardennes,

Les lotus des fleuves indiens?

 

Hélas! quand ton élan, quand ton départ m’oppresse,

Quand je ne peux t’avoir dans l’espace où tu cours,

Je songe à la terrible et funèbre paresse

Qui viendra t’engourdir un jour.

 

Toi si gai, si content, si rapide et si brave,

Qui règnes sur l’espoir ainsi qu’un conquérant,

Tu rejoindras aussi ce grand peuple d’esclaves

Qui gît, muet et tolérant.

 

Je le vois comme un point délicat et solide

Par delà les instants, les horizons, les eaux,

Isolé, fascinant comme les Pyramides,

Ton étroit et fixe tombeau;

 

Et je regarde avec une affreuse tristesse,

Au bout d’un avenir que je ne verrai pas,

Ce mur qui te résiste et ce lieu où tu cesses,

Ce lit où s’arrêtent tes pas!

 

Tu seras mort, ainsi que David, qu’Alexandre,

Mort comme le Thébain lançant ses javelots,

Comme ce danseur grec dont j’ai pesé la cendre

Dans un musée, au bord des flots.

 

--J’ai vu sous le soleil d’un antique rivage

Qui subit la chaleur comme un céleste affront,

Des squelettes légers au fond des sarcophages,

Et j’ai touché leurs faibles fronts.

 

Et je savais que moi, qui contemplais ces restes,

J’étais déjà ce mort, mais encor palpitant,

Car de ces ossements à mon corps tendre et preste

Il faut le cours d’un peu de temps...

 

Je l’accepte pour moi ce sort si noir, si rude,

Je veux être ces yeux que l’infini creusait;

Mais, palmier de ma joie et de ma solitude,

Vous avec qui je me taisais,

 

Vous à qui j’ai donné, sans même vous le dire,

Comme un prince remet son épée au vainqueur,

La grâce de régner sur le mystique empire

Où, comme un Nil, s’épand mon coeur,

 

Vous en qui, flot mouvant, j’ai brisé tout ensemble,

Mes rêves, mes défauts, ma peine et ma gaîté,

Comme un palais debout qui se défait et tremble

Au miroir d’un lac agité,

 

Faut-il que vous aussi, le Destin vous enrôle

Dans cette armée en proie aux livides torpeurs,

Et que, réduit, le cou rentré dans les épaules,

Vous ayez l’aspect de la peur?

 

Que plus froid que le froid, sans regard, sans oreille,

Germe qui se rendort dans l’œuf universel,

Vous soyez cette cire âcre, dont les abeilles

Ecartent leur vol fraternel!

 

N’est-il pas suffisant que déjà moi je parte,

Que j’aille me mêler aux fantômes hagards,

Moi qui, plus qu’Andromaque et qu’Hélène de Sparte,

Ai vu guerroyer des regards?

 

Mon enfant, je me hais, je méprise mon âme,

Ce détestable orgueil qu’ont les filles des rois,

Puisque je ne peux pas être un rempart de flamme

Entre la triste mort et toi!

 

Mais puisque tout survit, que rien de nous ne passe,

Je songe, sous les cieux où la nuit va venir,

A cette éternité du temps et de l’espace

Dont tu ne pourras pas sortir.

 

--O beauté des printemps, alacrité des neiges,

Rassurantes parois du vase immense et clos

Où, comme de joyeux et fidèles arpèges,

Tout monte et chante sans repos!...

 

 

*

 

 

TU VIVI, IO BEVO L’AZZURRO

 

 

Tu vivi, io bevo l’azzurro che si spande dal tuo viso,

il tuo riso mi nutre come il migliore grano,

non so il giorno, in cui, meno certo e meno buono,

            mi farai morire di fame.

 

Solitaria, nomade e sempre attonita,

non ho avvenire e non ho un tetto,

ho paura della casa, dell’ora e dell’anno

            in cui dovrò soffrire per te.

 

Come quando ti vedo nell’aria che mi circonda,

quando sembri migliore di come il mio cuore sogni,

Qualcosa di te senza sosta m’abbandona,

            perché null’altro che vivendo te ne vai.

 

Te ne vai e io sono come quei cani selvatici

che, la fronte sulla sabbia dove riluce un sole bianco,

cercano di trattenere nella loro bocca randagia

            l’ombra di una farfalla in volo.

 

Te ne vai, caro naviglio, ed il mare che ti culla

ti loda lontani e più ardenti trasporti.

Eppure, il peso del mondo si scarica

            nel mio vasto e tranquillo porto.

 

Non si muove più, il tuo alito impaziente, i tuoi gesti

assomigliano alla sorgente che abbandona i giunchi.

Tutto è arido e nudo fuori della mia anima, resta

            nell’uragano del mio riposo!

 

Quale viaggio varrebbe ciò che i miei occhi ti comunicano,

quando i miei sguardi gioiosi fanno scaturire nei tuoi

le sere di Galata, le foreste delle Ardenne,

            i loti dei fiumi indiani?

 

Ahimè! Quando il tuo impeto, quando la tua partenza m’opprimono,

quando non posso averti nello spazio dove ti muovi,

io penso alla terribile e funesta pigrizia

            che un giorno ti farà intorpidire.

 

Tu si gaio, si contento, così svelto e prode,

che regni sulla speranza come un conquistatore,

così ti unirai a questo vasto popolo di schiavi

            che giace, muto e tollerante.

 

Io lo vedo come un punto delicato e solido

oltre gli istanti, gli orizzonti, le acque,

isolato, affascinante come le Piramidi

            il tuo stretto e fisso sepolcro;

 

E guardo con spaventata tristezza,

la fine d’un avvenire che io non vedrò,

questo muro che ti resiste e questo luogo dove tu termini,

            questo letto dove s’arrestano i tuoi passi!

 

 

Tu sarai morto, come Davide, come Alessandro,

morto come il Tebano che lancia i suoi giavellotti,

come quel danzatore greco di cui ho soppesato le ceneri

            in un museo in riva al mare.

 

- Ho visto sotto il sole d’un antico lido

che tollera il calore come affronto celeste,

dei leggeri scheletri sul fondo di sarcofagi,

            ed ho toccato le loro fragili fronti.

 

E sapevo che, io che contemplavo quei resti,

ero già morta, ma ancora palpitante,

poiché a quelle ossa il mio corpo tende e s’affretta

            ci vuole solo un poco di tempo…

 

Io l’accetto per me, questa sorte così nera, così aspra,

io voglio essere quegli occhi che l’infinito ha scavato;

ma, palma della mia gioia e solitudine,

            con te ammutolivo,

 

Ti ho donato, senza nemmeno dirtelo,

come un principe offre la sua spada al vincitore,

la grazia di regnare sul mistico impero

            dove, come il Nilo, s’espande il mio cuore,

 

In te, flutto instabile, ho infranto tutti insieme

i miei sogni, i miei difetti, le mie pene e la mia gaiezza,

come un palazzo che si disfa e trema innanzi

            lo specchio di un lago agitato,

 

Bisogna dunque, che il destino ti arruoli

in questa armata preda di lividi torpori,

e, rimpicciolito, il collo rientrato nelle spalle,

            avresti l’aspetto della paura?

 

Che più freddo del freddo, senza sguardo, senza orecchie

germoglio che si riaddormenta nell’uovo universale,

saresti quella cera acre, da cui le api

            sviano il loro fraterno volo?

 

Non è sufficiente che io già parta,

che vada a mischiarmi a fantasmi afflitti,

io che, più di Andromaca ed Elena di Sparta

            ho visto il guerreggiare degli sguardi?

 

Mio bimbo, io mi odio, disprezzo il mio spirito,

quel detestabile orgoglio che hanno le figlie dei re,

poiché non posso essere un baluardo di fiamma

            tra la bigia morte e te!

 

Ma poiché tutto sopravvive, nulla di noi passa,

sogno, sotto i cieli dove la notte s’avvicina,

questa eternità del tempo e dello spazio

            da cui non ti potrai allontanare.

 

Oh bellezza delle primavere, vivacità delle nevi,

rassicuranti pareti del vaso immenso e chiuso

onde, come gioiosi e fedeli arpeggi,

            tutto s’eleva e canta senza posa!...

 

 

[ Traduzione di Giuliano Brenna, poesia tratta da Les vivants et les morts, Arthème Fayard & C.ie Editeurs,1913 ]

 

 

 

 Maria Musik - 21/09/2013 10:22:00 [ leggi altri commenti di Maria Musik » ]

Una poesia così intensa da destabilizzare chi ne viene rapito. Questo è, a mio avviso, uno di quesi casi nei quali, se si cede al canto della sirena (consapevoli del pericolo che si corre), ci si ritrova immersi in una emotività eccezionale che risveglia vissuti magnifici e dolorosi. La Bellezza ti squassa. Per me, leggere è stata una esperienza emozionale, così vivida, da averla vissuta con il "corpo".
Grazie a Giuliano per la "retituzione".

 Emilio Capaccio - 21/09/2013 02:18:00 [ leggi altri commenti di Emilio Capaccio » ]

Una vivida traduzione che restituisce all’orecchio la scorrevolezza, la fluidità dei versi originari di una poetessa che grazie a Giuliano ho conosciuto e imparato ad apprezzare, proprio per la musicalità, la grazia e la tragicità delle sue poesie, per cui:

Grazie Giuliano!

 Narda Fattori - 17/09/2013 08:30:00 [ leggi altri commenti di Narda Fattori » ]

E’ una poesia bellissima, priva di ogni vetustà; si orecchia il romanticismo che imperava ma il dono dell’amore è ntatto e in fiore.
Non manca il percorso dell’amore, dal pieno coinvolgimento al suo abbandono, ma ora sazia più del pane.
Il versi sono così armonici, sinceri,.. da vero poeta.
Narda

 Franca Alaimo - 16/09/2013 12:23:00 [ leggi altri commenti di Franca Alaimo » ]

Per fortuna, la bella poesia rimane e, prima o poi, qualcuno la offre nuovamente allo sguardo dei lettori. Una poesia che mi ricorda per il tema del viaggio in terre esotiche Il battello ebbro di Rimbaud e che di quest’ultima ha anche l’impeto immaginoso.
In questa poesia l’erranza dell’amato è specchio della propria dimensione interiore, è motivo di dolore ed allo stesso tempo immette il tema della distanza che rende possibile la mitizzazione e, perciò, l’irrompere degli eroi mitici nel presente.
Ma la certezza di una dimensione oltre la vita conforta la presenza della morte, vagheggiata e corteggiata tanto che, infine, è lei ad assumere il ruolo di tema centrale: la morte, infatti, mentre ruba le cose amate, le proietta nell’eternità, impedendo la dimenticanza; e certamente è questo sentimento che nutre la poesia. Sembra di sentire in questo passaggio il nostro amato Foscolo.
La traduzione di Giuliano è bellissima, conserva la musicalità ora bisbigliata, ora più solenne del testo originale.
La poesia mi ha donato una profonda emozione e, perciò dico grazie ad
Anna de Noailles e a Giuliano che l’ha ridata ai lettori di oggi.

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